A Natale siamo tutti più mostri
Montale sul comodino, il Grinch allo specchio e Netflix sullo schermo
Ventiseiesima Fagianata. Ventisei, come gli anni che aveva Montale quando iniziò a scrivere Ossi di seppia:
Non chiederci la parola che squadri da ogni lato
l'animo nostro informe, e a lettere di fuoco
lo dichiari e risplenda come un croco
perduto in mezzo a un polveroso prato.
Ah l'uomo che se ne va sicuro,
agli altri ed a se stesso amico,
e l'ombra sua non cura che la canicola
stampa sopra uno scalcinato muro!
Non domandarci la formula che mondi possa aprirti
sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.
Una poesia che non aggiunge, ma toglie. Spoglia dalle certezze, ci libera dalla fastidiosa sicumera e ci riporta coi piedi per terra. Abrasiva e pungente: come una canna d’acqua gelida ci rinfresca di umiltà, un bagno necessario per il cittadino globale mediamente ego-riferito della società contemporanea (vedi il sottoscritto). “Less is more” apostroferebbe qualche fantomatico guru senza pensarci due volte. Con questa poesia l’Eu-genio che fu, ci invita a meditare su noi stessi, scardinando le false certezze di cui pretendiamo di circondarci per una tanto apparente quanto suadente comodità: ci auto-convinciamo dell’esistenza di vere verità con la V maiuscola e pensiamo basti trovare ( cosa che spesso coincide con “pagare”) una formula risolutiva (“la parola che squadri da ogni lato”) per mettere a tacere le nostre inquietudini e sentirci “ok”. Ma come ognuno in cuor suo sa, l'unica vera Verità che è data all'uomo, questa sì con la V maiuscola, è la consapevolezza dell'impossibilità di avere qualche certezza: "Codesto solo oggi possiamo dirti, / ciò che non siamo, ciò che non vogliamo". Sa molto di Socrate che sapeva di non sapere e sa molto di Popper con il suo tacchino induttivista che sapeva solo di poter falsificare. Sa di amara, ma liberatoria, realtà. Bella Eugenio, grazie.
Waaa! Grazie Fede, bella mattonata anche oggi. Sotto Natale poi. Complimenti. Avete ragione, in effetti partire in quarta con un poeta che ha fatto del male di vivere uno dei suoi cavalli di battaglia non è proprio una gran mossa. Magari la prossima volta mi lancio su un Cinepanettone (trovo sempre divertente De Sica, giuro).
Ti sei comportato male? Tieni uno specchio
Ad ogni modo, perché questo polpettone esistenzialista in apertura, senza antipasti? Ebbene, mi spiego. Recentemente ho letto “Mostri”, il primo libro pubblicato da Altrecose, la nuova casa editrice creata dal Post insieme a Iperborea. Due nomi, due garanzie. Altrecose è un po’ come il figlio di due genitori superfichi: non può che essere superfico al quadrato (forse). E in effetti è così, almeno personalmente. Tuttavia, urge una premessa: è un libro che affronta temi scivolosi e con un altissimo potenziale di “scomodità intellettuale”. E ci piace. Nato con il movimento #MeToo, e subito diventato virale e discusso, il libro di Claire Dederer affronta il “tormento dei fan”, ossia l’attualissima questione del diverso giudizio che possiamo avere da una parte sulle opere letterarie o artistiche e dall’altra sui loro autori e autrici. “Si può/deve distinguere la vita di un autore dalla sua opera?” Il testo si impernia di fatto su questa domanda, snocciolandola ed esplodendola poi in tante sottotracce: come dobbiamo convivere, oggi, con le opere di artisti(e) “mostruosi(e)”? Possiamo e dobbiamo ancora amare le opere di Hemingway, Allen, Polanski, Dalì, Woolf o Picasso? I geni, che chiamiamo anche “mostri” di bravura, meritano un trattamento speciale?
Tra gli aspetti che più apprezzo del libro ci sono la sua inconcludenza e l’irresolutezza: non vengono mai date risposte nette, al contrario ci si domanda costantemente se si può convivere in questa perenne contraddizione. E se sì, come? Ecco, ricordando Montale, quando chiudiamo il libro siamo più spaesati rispetto all’inizio. Abbiamo un bagaglio pieno di domande e perplessità e, ovviamente, siamo più confusi. Sappiamo quello che non siamo, ma neanche questo è ben definito. Ricordandoci della vera Verità di Ossi di seppia, è proprio questo inquieto dubbio a rappresentare di per sé una risposta preziosa e quantomeno soddisfacente. E’ nell’ incertezza, nel continuo domandarsi e mettersi in discussione che troviamo lo slancio per migliorare e andare avanti: questo non significa solo “fare passare” il tempo, lasciandoci agire dalle cose, ma crescere come persona e accrescere la nostra autoconsapevolezza .
Ecco dunque, in questo marasma di pensieri vi ho anche lanciato un’idea per il regalo di Natale a cui giustamente nessuno aveva ancora pensato: come l’anno scorso, non solo ri-consiglio sia Il pastore d'Islanda di Gunnar Gunnarsson sia una qualsiasi guida di The Passenger, ma anche uno dei nuovi titoli di Altrecose. A ben vedere, tra l’altro, tutto marchiato Iperborea (N.B. questa newsletter non è sponsorizzata, purtroppo (azzzz)).
Tornando al libro della Dederer, c’è un capitolo in particolare che ho apprezzato moltissimo: quello su Nabokov, autore del controversissimo Lolita, libro sull’ agghiacciante figura del pedofilo per antonomasia. Testo scomodo, già. Non voglio dilungarmi su come l’autrice tratta questo argomento delicatissimo e la relazione tra l’autore, il protagonista Humbert Humbert e il libro stesso. Tuttavia c’è un passaggio secondo me molto efficace e da cui prendo spunto per un’ultima riflessione. Scrive la Claire: “Io sono un mostro? Non ho mai ucciso nessuno. Io sono un mostro? Non ho mai sostenuto il fascismo. Io sono un mostro? Non ho mai molestato un minore? Io sono un mostro? Non ho fama di antisemita…” Eccetera. Aggiungerei “Io sono un mostro? Non ho mai mentito a qualcuno dicendo che la tisana al finocchio è buonissima”. Visto? Un sacco di cose tremende che non ho fatto. Non sono un mostro. O forse non è così semplice; come tutti mi sono comportato e mi comporto, male, ho pensieri abbietti e dico cose di cui poi mi pento e tanto altro. E in più scrivo Fagianate, questo non fa di me sicuramente una brava persona.
Però, uno dei punti cruciali delle opere d’arte di valore sta proprio qui. Soprattutto l’arte dei “mostri” del passato: in quella mostruosità dobbiamo cercare noi stessi. Cercare specchi di quello che siamo davvero nella nostra multiforme personalità, piuttosto che una prova di quanto siamo bravi, quanto siamo diversi dal cattivo di turno. Come un caleidoscopio, specchiandoci sul mondo, vediamo riflessi in noi tutte le sfaccettature del nostro essere. Vediamo alla televisione qualcuno che fa, dice qualcosa di riprovevole, omicidi, manifestazioni, atti efferati, furti e subito puntiamo il dito e ci erigiamo pensando: “Ma come si fa? No, io non l’avrei mai fatto. Io sono meglio.” E invece no. Sono sempre gli altri. E in questa perenne tensione dell’indice verso l’altro, invece che fargli fare inversione a U puntando a noi stessi per guardarci meglio dentro, mascheriamo e dimentichiamo le nostre mancanze e cattiverie. Siamo luci e ombre. E ammettere la nostra limitatezza ci mette a disagio.
Leggendo sul tema ho trovato questa bella riflessione de “Lo Sbuffo” in cui si sottolinea il potere dell’arte: “il mezzo per conoscere se stessi. La mimesis, imitazione, non è più riferita alla realtà contingente, alla natura ma a una condizione esistenziale. Lo specchio su cui si affaccia il mondo ora è specchio dell’anima, rimanda non più al visibile ma all’invisibile.”
E’ a questo che serve la cultura: i libri, i film, i quadri sono strumenti per scavarci dentro. Picconi e scalpelli. Come infaticabili minatori. Se guardo un film non posso sempre e solo dire “bello”, “non mi è piaciuto il finale” e altre vacuità. Va bene, ogni tanto il cervello lo possiamo prendere e mettere da parte. Ma fosse sempre così sarebbe un peccato e, personalmente mi arrischio a dire, una perdita di tempo. Quando leggo un libro, mi ci rivedo nel personaggio? Nei suoi pensieri? Il protagonista di quel film rispecchia i miei sentimenti e le mie turbe? Perché ho avuto uno scintillio quando ho visto quel quadro? Nelle parole ci si può rivedere, crogiolarsi, tuffare a bomba. Si può prendere spunto, criticare, si può far sedimentare riflessioni che chissà prima o poi, oppure mai, saranno utili per il nostro “me” del futuro. Come un aratro, l’opera d’arte solca il terreno e lo prepara alla semina, così che potremo ritenerci all’altezza di una situazione inaspettata: l’inevitabile morte di una persona cara, la rottura di un rapporto d’amore, d’amicizia, un “acceso diverbio” con un automobilista e infinite altre cose.
Il Grinch era comunista?
Tornando al concetto dell’ “altrui mostruosità”, da cui in realtà sarei voluto partire e su cui avrei voluto incentrare questo testo prima che prendesse la deriva, c’è un argomento tanto importante quanto evitato, che sotto Natale prende le forme di un elefante gigante nella stanza: il consumismo. Sì ora questa Fagianata si tinge di verde e di rosso, no per l’albero e Babbo Natale, ma per il Grinch e un velato anti-capitalismo. Che poi chi mi conosce sa che non è proprio così, ma è bene argomentare un minimo.
“A comprare troppo sono solo gli altri, no? Prendo sempre e solo quello che mi serve. Viene sempre scartato troppo cibo. Ma come ?! Noi che non avanziamo niente sul piatto.” Eppure. Da poco è uscito su Netflix “Buy Now - L'inganno del consumismo”. Un documentario che interroga e ci fa fare domande.
Che fine fanno i prodotti che compriamo? È normale che durino sempre meno? È colpa del consumatore o del venditore? Davvero mi serve l’ultimo modello di telefono, l’ennesimo paio di scarpe, la gonna da abbinare al maglione rosso alla cena di Natale? Secondo le stime, GAP produce ogni anno circa 12 mila nuovi capi, H&M 25 mila, Zara 36 mila, Shein un milione e 300 mila (avete capito bene “capi nuovi”, sono più di 100.000 al mese, 3.000 al giorno). Gli auricolari wireless, gli elettrodomestici per la casa e tutto ciò che abbia un minimo di tecnologia viene fabbricato in modo sempre più complicato per disincentivare la sostituzioni di pezzi. Ogni giorno “gettiamo via” 13 milioni di telefoni. Che poi gettare via non significa che spariscono nel nulla, anzi: sono posti ben definiti come Thailandia, Ghana, India, luoghi in cui materiali tossici e inquinanti contaminano la già precaria vita dei più poveri. Un bel docu-film che squarcia il velo dell’illusione e ci mette sotto il naso i tanti lati oscuri del nostro stile di vita.
Come è normale che sia, una risposta a problemi così complessi e pervasivi non c’è. Sosteneva Fisher in “Realismo capitalista” che una delle grandi vittorie di questo modello economico consiste nel suo essere totalizzante e permeante, tale per cui pare impossibile pensare ad alternative. E chissà se aveva ragione, finora pare di sì.
Tuttavia, qualcosa di non risolutivo, ma utile lo possiamo fare. Questo Natale regaliamoci un po’ meno cose e un po’ più autoconsapevolezza, pensando a quel che c’è dietro ogni cosa che compriamo, dalla sua realizzazione al suo scarto. Mi serve davvero regalare a 10 persone un oggetto inutile da 3 euro con tutto l’indotto di plastica che ne deriva, solo per sottostare alle inutili logiche del “““Natale”””, così che grazie a 30 euro posso sentirmi in pace con me stesso sapendo di aver scampato anche quest’anno la figura del maleducato menefreghista che non si ricorda degli altri? Tanto basta il pensiero no? Beh, mi vien da dire, che basti solo il pensiero.
Attenzione! Alert! Non sto dicendo di non fare mai più regali, specie se di valore, o non comprare più nulla o vivere d’aria. E’ solo un invito a rifletterci un po’ di più.
E con questa placida e incoraggiante chiusura per cui mi è spuntata un po’ di barba marxista, vi saluto e vi auguro, caso mai la pigrizia prendesse il sopravvento i prossimi 15 giorni, delle buone feste! Ciao!
Sempre interessanti articoli ben argomentati che portano a pensare , essere,avere e quanto ci mettiamo personalmente per rovinare il nostro pianeta. Venendo da una generazione che ha contribuito ahimè al consumismo è molto meno a come poi smaltire il tutto quanto scrivi fa pensare e cercare di migliorare in tal senso. Certo non facile ma ci si prova. Altra constatazione sull’essere è argomento spinoso e ci lavorerò un po’ di più di quanto fatto fin ora. Buone Fagianate aiutano.